Dicembre è il dodicesimo e ultimo mese dell’anno secondo il calendario gregoriano, conta 31 giorni.
Il nome dicembre deriva da decem, nome latino del numero dieci. Era infatti il decimo mese del calendario romano, che cominciava con il mese di marzo.
In esso avviene il passaggio dall’autunno all’inverno, che tradizionalmente coincide con il solstizio d’inverno il 21 dicembre. Per i popoli antichi segnava il ritorno della luce, per via dell’allungamento delle giornate, e ciò dava luogo a feste e riti legati al sole e alle divinità ad esso collegate, come ad esempio Mithra (adorato sia dai persiani che in epoca greco-romana). Nella liturgia cristiana questa tradizione è stata ripresa nella festività di Santa Lucia (13 dicembre), considerata come portatrice della luce, mia nonna ogni anno diceva che il giorno di santa lucia è il più corto dell’anno.
E’ legata alla luce anche l’altra importante festività del Sol Invictus, anticamente celebrata il 25 dicembre, che ha ispirato il Natale cristiano in cui si celebra la nascita di Gesù, salutato come «colui che creò il Sole» e quindi la luce. Dicembre vuol dire per me, più degli altri mesi : saudade, per tutti i natali che non ho mai avuto, che ho sempre sognato, ma mai realizzato.
Saudade: al borgo natio il freddo danzava nell’aria: non si vedevano più insetti ,lucertole, chiocciole, formiche e farfalline. Sui maestosi ulivi regnava sovrano il silenzio.
Scompariva la magia dell’autunno, gli alberi ormai nudi tendevano le loro braccia al cielo.
Il fuoco però scoppiettava nel camino, per me era una grande gioia.
Il camino mi ha sempre consolata, era un grande amico che mi diceva dolcemente: “andrà tutto bene, cambierà ogni cosa”. E anche se tutto non è andato come doveva andare, il conforto è stato importantissimo. Oggi non ho un camino e nessuno più mi dice che tutto forse, un giorno cambierà.
Ricordo, con infinita nostalgia, il Natale al borgo natio.
In quei giorni, il clima natalizio era carico di gioia e di entusiasmo.
Una dolce e magica attesa che iniziava il 30 novembre.
Mia nonna infatti diceva:” Sant’Andrea portau la nova/ à lu 6 è di Nicola/à l’8 è di Maria/ à lu 13 è di Lucia/ à lu 21 San Tommasu canta/ à lu 25 la nascita Santa”.
Si aspettava in primis, il giorno dell’Immacolata. Questo giorno era dedicato alla preparazione dell’albero di Natale, del presepe e delle zeppole.
Nei paesi della Piana di Gioia Tauro era tradizione preparare le prime zeppole, proprio la sera dell’Immacolata. Noi bambini la mattina presto andavamo a raccogliere il muschio, che serviva alla preparazione del presepe. Indelebile è rimasto nel mio cuore e nella mia anima l’odore degli ulivi, degli aranci e l’odore della terra.
Se chiudo gli occhi sento ancora la carezza del muschio vellutato tra le mie mani.
Le statuine del presepe erano in legno, semplici e belle, le casette in cartone e per laghetto uno specchio rotto. L’albero di Natale presentava solo semplici addobbi, fatti in casa, come biscotti, bucce d’arancia o piccole ghirlande. Ma era proprio la semplicità a renderli speciali.
Il giorno dell’Immacolata si andava a messa indossando i vestiti nuovi perché ”Di parmi e di fiuri, sparmanu i signuri, i Pasca e i Natali sparmanu i vedani”.
Il significato di questo detto è che i “signori” non aspettano il giorno di Pasqua e di Natale per indossare vestiti nuovi come il “popolo”.
La sera dell’Immacolata era festa per tutta la famiglia, perché si preparavano le zeppole(i zippuli).
Questo rituale ,ci riporta agli antichi romani, che preparavano delle frittelle durante i Saturnali.
Patate, farina e lievito erano (e lo sono ancora)i semplici ingredienti delle zeppole, il cui profumo danzava per tutte le vie del paese. Il 16 dicembre iniziava la novena. Gli zampognari scendevano dalle montagne e iniziavano la novena davanti ai presepi, incominciando a suonare, stando 9 passi lontano da questi.
La distanza andava diminuendo ogni giorno di un passo, così l’ultimo giorno della novena suonavano vicinissimi ai presepi. Nei paesi in cui gli zampognari non arrivavano, c’erano delle orchestrine che suonavano la mattina presto, prima della messa, per le vie del paese.
Tutte le famiglie partecipavano alla novena, nessuno restava a casa.
All’alba la campana della Chiesa suonava, rinnovando la gioia dell’attesa nel cuore di tutti.
Quando ancora la strada non era asfaltata si andava a messa attraversando un viottolo di campagna: la luna si ergeva superba tra gli ulivi, mentre l’ultima stella danzava nel cielo.
La sera della vigilia sul caminetto, ardeva un pezzo di legno “u cippu”, che non si doveva spegnere perché serviva a scaldare il Bambinello appena nato. Prima di metterlo sul fuoco, veniva coronato con dell’edera e circondato da 12 pezzettini di legno, che stavano a simboleggiare gli apostoli e i 12 mesi dell’anno.
Anche questa usanza si ricollega agli antichi romani, quando il “pater familias” sacrificava ai Lari e ai Penati, esercitando così l’ufficio di sacerdote. Sempre gli antichi romani, avevano il costume di non lasciare spenta la lucerna, perché ritenevano di cattivo augurio spegnere il fuoco.
Sulla tavola la sera della vigilia, c’erano 13 pietanze e, tra queste, non mancavano mai: noci, noccioline, castagne al forno, mele, agrumi, frittelle di baccalà con verdure, pesce stocco rigorosamente di Cittanova e naturalmente le zeppole. C’erano poi i torroni che, venivano fatti artigianalmente con zucchero, noccioline americane, con pezzetti di ghianda e semi di ricino. Il giorno di Natale, il piatto forte erano i maccheroni fatti in casa con il ragù.
Anche i regali erano semplici: una bambola di pezza, dei soldi dentro una calza, dei torroncini.
Per tutto il periodo natalizio si giocava a carte e a tombola, mentre i bambini giocavano “a fosseja”. In ogni casa nel pavimento, veniva scavata una buca o nelle strade. Bisognava lanciare noccioline a terra e poi con l’indice mandarle nella buca, chi riusciva a centrarle tutte, se le prendeva, mentre chi non riusciva, passava il turno al compagno. La notte di Natale era una notte sacra, avvolta nella magia, un mix di sacro e profano. Per esempio, era d’uso che le madri svelassero alle figlie il rituale per togliere il malocchio.
Anche se al di sopra di tutto c’era davvero la gioia dell’attesa e la fede.
Inoltre le famiglie erano unite, ci si accontentava di poco e bastava un torroncino per essere felici.
La magia del Natale continuava fino all’Epifania, passando per Capodanno.
Al mattino del 1 gennaio, noi bambini facevamo gli auguri a tutto il vicinato e ai parenti.
Ricordo che trascorrevamo il pomeriggio giocando e sorridendo perché: ”Cu è felici a Capudannu e felici tuttu l’annu”. Io che ho sempre amato i libri, trovavo sempre il tempo per leggere almeno cinque pagine di un libro, per assicurarmi così libri per tutto l’anno.
La Befana ci regalava l’ultima festa del periodo natalizio, appendevamo la calza al caminetto sicuri di ricevere tante caramelle, dolci e un vestito nuovo per la bambola.
La notte della Befana, un mix di sacro e profano accarezzava l’aria, forse era la mia impressione, in fondo la Befana è una strega buona.
Sono passati tanti anni e intorno a me tutto è cambiato, della mia infanzia, del Natale al borgo natio, è rimasto solo il ricordo. Ricordare vuol dire “riportare al cuore”.
Saudade : ho trovato in fondo ad un mobile in disuso il presepe: le statuine che papà mi aveva comprato.
Le ho prese per conservarle, conservare il ricordo del Natale nella casa al borgo natio.
Forse in quel momento che chiesi di poter comprare il presepe, non era nemmeno possibile, ma il mio meraviglioso papà non mi disse di no.
Per questo li ho salvati , e li custodisco gelosamente, insieme ai ricordi, alla saudade, in attesa di un Natale foriero di luce e serenità.
Caterina Sorbara